Commento al Vangelo di don Battista Borsato

XXIV°  DOMENICA del T. O. 

La “passione” del pastore

In quel tempo si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: “Costui accoglie i peccatori e mangia con loro”. Ed egli disse loro questa parabola: “Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova? Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, va a casa, chiama gli amici e i vicini, e dice loro: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta. Io vi dico: così vi sarà gioia in cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione. Oppure, quale donna, se ha dieci monete e ne perde una non accende la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova? E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine e dice: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduto. Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte”.

Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre.
Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa. Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».

(Lc 15,1-32)

Questa domenica ci presenta una delle pagine più belle e sconvolgenti di tutto il Vangelo. Vi si riportano le famose parabole della misericordia. Queste sorprendenti parabole (Lc 15) nascono da una domanda, che è poi un severo giudizio nei riguardi degli Scribi e dei Farisei: “Perché costui accoglie i peccatori e mangia con loro?”. Anche gli Scribi e i Farisei non negavano l’accoglienza a chi si pentiva e si ravvedeva, ma Gesù ama i peccatori già prima del loro ravvedimento, li ama anche se peccatori, perché bisognosi di essere amati e aiutati.

Il verbo “mangia con loro” è di una suggestione sbalorditiva: mangiare con i peccatori, i pubblicani, i pagani, era proibitissimo dalla legge giudaica, era inquinarsi, e Gesù si lascia inquinare per amore degli altri. Ci è presentato un Dio diverso: un Dio a rovescio di quello della religione ebraica. Qui c’è il vero contrasto, il dissidio teologico tra Gesù e l’istituzione religiosa.

Mi soffermerò sulla prima parabola, quella della pecora. Quella del figlio prodigo, o del padre misericordioso, è molto più commentata e l’abbiamo già affrontata in precedenza.

Come sempre soffermiamoci su alcune espressioni.

  • …..lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta”. Ma novantanove non valgono più di una? Perché il Pastore vuole correre il doppio rischio di perdere le novantanove, abbandonate a se stesse, e di non ritrovare quella perduta? Questo pastore si muove secondo una logica strana: ma è la stranezza di Dio. Dio non pratica il nostro modo di ragionare, fatto di calcoli, di giochi di interesse, e segue invece una logica di attenzione verso chi si trova maggiormente in difficoltà, nel bisogno. L’amore è prendersi cura di chi più soffre o vive momenti di spaesamento. Il pastore non trascura di sicuro le sue novantanove pecore; è probabile che si trovassero in un posto recintato, o che altri ne avessero cura in sua assenza, oppure, ancora, che queste pecore fossero così docili da permettergli di allontanarsi per qualche ora. Forse l’evangelista, dicendo che le lascia nel deserto, vuole ancora di più evidenziare l’irrefrenabile amore, la travolgente passione per la pecora che si trova nel pericolo. Da notare che l’attenzione è posta su ciò che Dio fa per recuperare il peccatore smarrito e niente su ciò che debba fare il peccatore per essere riaccolto da Dio. Dio ama ogni persona come fosse l’unica, anche se si trattasse di una persona cattiva. È indicata la preziosità di ogni persona davanti agli occhi di Dio. E l’esplosione della gioia nel ritrovamento è indice di questo amore appassionato e umanamente irrazionale! L’invito contenuto in questa parabola è rivolto alla Chiesa: Essa deve preoccuparsi dei lontani, non può chiudersi nella cura dei vicini. So che dire “lontani” è ambiguo: chi sono? Uomini e donne che possono apparire lontani dalla Chiesa, ma non necessariamente da Dio e dal suo regno. Papa Francesco invita vivacemente i pastori ad avere “l’odore delle pecore”, cioè di condividere la loro vita. Bisogna sottolineare che la ricerca dei lontani, appunto, non deve avvenire per scopi di “conquista” religiosa, ma prima di tutto per urgenza umana ed esistenziale. Quando, in seno alla comunità cristiana si parla di “lontani” si pensa normalmente ai non praticanti, e a quali strategie mettere in atto allo scopo di avvicinarli alla Chiesa. Non intendo dequalificare o scoraggiare questa azione, ma è importante mettere l’accento, per contrasto, sull’intento liberatorio che muove il pastore della parabola. Vi sono persone non pienamente libere perché, a causa della situazione in cui vivono, non hanno dignità e diritti: si trovano fuori di sé, incapaci di gestirsi, perse interiormente e, di conseguenza, emarginate o addirittura condannate. Ora, l’azione della Chiesa non deve essere principalmente rivolta a renderle “religiose”, ma ad essere “persone”, nella completezza del termine. Se poi diventano religiose, meglio. Gesù non ridà la vita ai ciechi, o l’udito ai sordi, o la parola ai muti, perché diventino suoi seguaci o aderiscano alla sua visione del mondo: lo fa perché diventino persone libere, promosse, piene. Più sono persone, più sono immagine di Dio.
  • “Quando l’ha trovata pieno di gioia se la carica sulle spalle…”. Prima di mettere in rilievo la gioia esplosiva del pastore che ritrova la pecora, vorrei farmi, o farci, una domanda: Perché la pecora si è perduta? Può essersi perduta per sbadataggine propria, ma anche per trascuratezza del pastore, oppure perché non vuole vivere una vita intruppata e allineata. E non sembri, quest’ultima, un’ipotesi sciocca. Le varie vie di interpretazione consentiteci dalla parabola ci spingono a soffermarci anche su questa possibilità: la pecora si perde nella ricerca della libertà personale, perché vuole seguire la propria coscienza e non sottostare passivamente a scelte imposte da altri. Sono molti oggi quelli che lasciano la Chiesa. Perché accade? È facile dire che la gente se ne va perché il benessere ha infiacchito tutti, perché credere è scomodo e non credere è più semplice. Non nego che queste motivazioni abbiano un loro fondamento, ma osservo anche che alcuni abbandonano la Chiesa perché si sentono minorenni, perché non hanno voce in capitolo, perché al suo interno non vengono corresponsabilizzati. Avvertono che le proprie coscienze sono imbavagliate da norme e leggi a volte discutibili, che impediscono di agire in piena autonomia. Questa diaspora non potrebbe suonare come un appello alla gerarchia, un richiamo ad essere meno invadenti, un invito ad ascoltare le voci ed i pensieri di tutti? Non potrebbe, questo esodo, indicare l’insofferenza verso un clericalismo che pretende di far da guida alla Chiesa e che si permette di tralasciare il contributo delle idee non gradite?

Due piccoli impegni:

            – L’amore non guarda il numero, ma il bisogno delle persone.

            – Lasciarsi interrogare dalle diserzioni nella Chiesa.