Commento al Vangelo di don Battista Borsato

La persona è prima del suo peccato

In quel tempo, Gesù si avviò verso il monte degli Ulivi. Ma al mattino si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui. Ed egli si sedette e si mise a insegnare loro. Allora gli scribi e i farisei gli condussero una donna sorpresa in adulterio, la posero in mezzo e gli dissero: “Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?”. Dicevano questo per metterlo alla prova e per avere motivo di accusarlo. Ma Gesù si inchinò e si mise a scrivere col dito per terra. Tuttavia, poiché insistevano nell’interrogarlo, si alzò e disse loro: “Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei”. E, chinatosi di nuovo, scriveva per terra.

Quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno , cominciando dai più anziani. Lo lasciarono solo, e la donna era là in mezzo. Allora Gesù si alzò e le disse: “Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?”. Ed ella rispose: “Nessuno, Signore”. E Gesù disse: “Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più”.

(Gv 8,1-11)

Questo episodio tratteggia lucidamente la differenza tra gli scribi, i farisei e Gesù. Gli scribi e i farisei tentavano di purificare il mondo con il castigo, la condanna, l’accusa. La severità era, secondo loro, la condizione per correggere le persone e sanare la società.

Anche la Chiesa per secoli ha predicato un Dio della paura, un Dio che puniva i peccatori, li castigava fino a prospettare un luogo di tormenti chiamato inferno: un luogo o uno stato di sofferenza per sempre.

Di fatto però il mondo non è cambiato sotto la minaccia del castigo o della punizione. Non è la paura che converte l’uomo. Ma se anche una persona non facesse il male per paura, questo sarebbe un vero bene? La paura non rende migliori. Il Dio della paura non trasforma le persone, al massimo può trattenerle dal compiere azioni negative o malvagie. Ma se uno si trattiene solo per paura, ma non per il valore della sua scelta, non per la passione del bene, non perché si rende conto che solo il bene è costruttivo, se è solo la paura della punizione che segna la sua etica egli non diventa migliore, né rende il mondo più giusto.

Anche la Chiesa progressivamente si è resa conto che non è con la condanna che si cambia l’uomo e il mondo, non è con la paura del castigo che l’uomo si risana e si eleva, ma attraverso la scoperta dell’amore.

Gesù ha amato gli uomini e le donne ed essi sentendosi accolti e amati anche dentro le loro fragilità e peccati, hanno avuto la forza e il coraggio di intraprendere la via della giustizia e della bontà.

È rimasta famosa e storica l’espressione di Papa Giovanni nel discorso di apertura del Concilio Vaticano II°, l’11 ottobre 1962: “La Chiesa ha condannato con la massima severità gli errori. Ora la sposa di Cristo preferisce usare la medicina della misericordia piuttosto che della severità”. Anche Paolo VI alla conclusione del Concilio affermava: “Invece che deprimenti condanne, incoraggianti rimedi”.

Capisco che nell’ambito civile, dove esistono idee e comportamenti diversi, ci vuole il rispetto delle regole, quindi sono doverose la correzione e la punizione per chi non le rispetta. Ma se pensiamo che la correzione e la punizione facciano crescere un’umanità nuova è pura illusione, anzi, a volte, la esaspera e la incattivisce. Anche in campo civile occorre credere che solo il dialogo e le relazioni fanno nascere una nuova società umana, anche la pena carceraria deve essere redentiva. I credenti non possono credere a Dio per paura della punizione. Questo vorrebbe dire non aver scoperto il Dio di Gesù che offre una proposta nella quale l’uomo ritrova se stesso e scopre il senso del vivere. La relazione con Dio è una perla preziosa che dà gusto alla vita. Gesù non è venuto per condannare, ma per insegnare la strada dell’umanizzazione e della felicità anche nel presente.

Soffermiamoci su tre espressioni del Vangelo.

  • Mosè nella legge ci ha comandato di lapidare donne come questa”. Non si nomina neppure la donna. C’è solo disprezzo. Scribi e farisei non vedono la persona, vedono solo il peccato. C’è una categoria di persone che Gesù non sopporta: gli accusatori. Essi non si domandano il perché la donna abbia peccato. Un errore, un peccato, può avere molte cause: non sentirsi accolti, non aver avuto un ambiente educativo, l’essere incappati in relazioni negative. Lo sbaglio è sempre frutto anche di contesti negativi. La persona spesse volte è spinta, quasi “portata” al male, spesso controvoglia. Più che accusare occorre capire, conoscere, dare una mano. Giovanni Paolo II nell’enciclica “Donum vitae” afferma: “L’aborto è un male gravissimo che va condannato, ma non va condannata la donna che lo compie. Chi può conoscere la sua situazione e i suoi problemi? Per Gesù la persona è prima del suo peccato.
  • Donna dove sono? Nessuno ti ha condannata?”. Gesù la chiama donna, è lo stesso nome che Gesù ha usato per Maria sua madre a Cana. Con questo nome Gesù dà fiducia e stima a questa donna. Egli non guarda il peccato, guarda la persona. E per quanto una persona pecchi, è sempre più grande del suo peccato. E Gesù la ama anche se è peccatrice, essa non perde mai la sua dignità. Forse questa donna non ha mai avuto un uomo che le parlasse così con tale affetto e ascolto! E sarà questo affetto che la porterà a ripensare la sua vita.
  • Neanch’io ti condanno: va’ e d’ora in poi non peccare più”. Qui c’è il senso del perdono. Perdonare non è chiudere gli occhi o permettere, e tanto meno giustificare; perdonare è caricarsi della persona e dei suoi sbagli. L’amico teologo don Germano Pattaro sosteneva che forse Gesù avrà detto: “Donna d’ora in poi starò vicino a te e tu non peccherai più”. Perdonare è stare vicino alla persona che ha sbagliato per capirne le ragioni e aiutarla a rendersi conto della sua situazione accompagnandola con affetto nel cammino di liberazione. Perdonare è caricarsi della persona e dei suoi problemi.

Due piccoli impegni:

– Dio non vuole credenti per paura.

– Perdonare è ridare speranza.