Commento al Vangelo di don Battista Borsato

XXX  Domenica  del  T.O.

La strada

In quel tempo, mentre Gesù partiva da Gèrico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. Sentendo che era Gesù di Nazareth, cominciò a gridare e a dire: “Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!”.

Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: “Figlio di Davide, abbi pietà di me!”.

Gesù si fermò e disse: “Chiamatelo!”. Chiamarono il cieco, dicendogli: “Coraggio! Alzati, ti chiama!”. Egli, gettato via il mantello, balzò in piedi e venne da Gesù. Allora Gesù disse: “Che cosa vuoi che io faccia per te?”. Il cieco gli rispose: “Rabbunì, che io veda di nuovo!”. E Gesù gli disse: “Va’, la tua fede ti ha salvato”. E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada.

Mc. 10, 46-52

Questo racconto è denso di messaggi e prospettive. Per coglierli si esige di leggerlo non tanto letteralmente, ma entrando nel significato dei vari gesti. I Vangeli non sono tanto racconti storici, sono anche storici, ma soprattutto simbolici. Dobbiamo togliere il velo per assaporare i messaggi che in essi sono racchiusi. E in questo racconto mi soffermo, come sono abituato a fare, su tre particolari o tre espressioni.

  • “Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: Figlio di Davide abbi pietà di me!”.

Il cieco di cui parla il Vangelo ha un nome, Bartimèo che vuol dire figlio di Timèo. Avere un nome significa che è amato da Gesù e quindi da Dio. Non aveva l’amore e la stima della gente perché essendo cieco era considerato un peccatore, tanto è vero che la gente cerca di farlo tacere. Agli occhi della folla non era né considerato né amato, mentre è amato da Dio. Qui si scopre il primo messaggio: Dio si prende cura del povero, del malato, dell’ultimo. E se uno vuol essere credente in Dio deve fare altrettanto: prendersi cura dell’emarginato, del forestiero, del senza dimora. La fede non è tanto credere a delle verità o essere fedeli agli atti di culto, la fede è amare l’uomo, anzi amare l’uomo più bisognoso: può essere l’anziano solo, il profugo, anche il giovane. Parliamo spesso giustamente di aver cura degli anziani, ma si parla poco di aver a cuore la situazione dei giovani. Forse oggi i giovani sono le persone più indigenti, sia perché l’età dell’adolescenza e della giovinezza è la più fragile in quanto sono carenti di una maturità e di una consistenza che li possano guidare, ma soprattutto perché sono spesso i più abbandonati, mancano di accompagnamento. I genitori sono così indaffarati che non hanno tempo da “perdere” con i figli, la scuola è così protesa al profitto che non si accorge dei vuoti e delle sofferenze che attraversano i giovani. Se poi pensiamo ai figli di genitori separati, che spesso giocano con i figli per vincere l’uno con l’altro, possiamo capire il loro dramma e come sia fatale l’approdo alla droga che oggi manifesta il volto più brutale e criminale.

Il caso della ragazza Desirèe stuprata e uccisa, dopo essere stata drogata, di cui hanno parlato i giornali e la TV è un segnale inquietante. Questa ragazza era praticamente senza genitori e la mamma, per carenza di tempo, l’aveva affidata ai nonni. Effettivamente era abbandonata a se stessa. I giovani hanno estremo bisogno di essere accompagnati, di avere persone di riferimento che abbiano il coraggio di perdere tempo con loro, di ascoltarli. Io li considero i nuovi poveri. E quando capitasse di ascoltare il loro grido, le loro domande anche se a volte arroganti, non abbandonarli né giudicarli, ma lasciare che parlino. Mi pare di dover dire che i giovani in generale sono i poveri del nostro tempo, non nel senso del denaro, ma della fragilità interiore.

  • “Bartimèo che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare”.

Il cieco di Gerico è dipinto dal Vangelo con tre semplici pennellate. Primo: è cieco, non vede niente, non gode il sole, i colori, il volto di sua madre. Secondo: è mendicante, non ce la fa da solo, vive se qualcuno si accorge di lui. Terzo: è seduto, che è un simbolo. Significa che la sua vita si è fermata, si è arreso. È, in un certo senso, l’ultimo della fila. Che cosa c’è di più povero di uno che è cieco, mendicante, sfinito? Il cieco era quindi, un emarginato, non solo socialmente, ma soprattutto religiosamente. La cecità era considerata una punizione per qualche peccato, e il cieco era di conseguenza ritenuto indegno di partecipare alla vita religiosa della comunità. Non poteva leggere la parola di Dio, quindi non poteva conoscerla: anche per questo era giudicato peccatore e, di conseguenza, considerato un reietto.

I discepoli sgridano Bartimèo per farlo tacere, perché non vogliono che la sua voce contamini Gesù: dal momento che egli è un peccatore non può avvicinarglisi.

Eppure è proprio lui, l’emarginato a riconoscere in Gesù il Messia, il Figlio di Davide. Oggi dopo il Concilio si comincia a ritenere che Dio parla dappertutto, in tutte le persone credenti e non credenti e che spesso le persone ritenute non credenti, o addirittura avversarie della chiesa, possono svelare qualcosa del pensiero di Dio. Molti uomini e donne che hanno avuto una voce critica verso la chiesa, una voce ritenuta insolente, sono stati apprezzati poi perché si è scoperto che quella voce svelava incredibilmente il pensiero di Dio.

Ma se vogliamo anche noi percepire la voce di Dio che parla nella storia, occorrerà dare ascolto a tutti e, in modo particolare, alle voci dissenzienti e irregolari, perché forse è proprio in esse che si manifesta il disegno di Dio.

Lutero affermava che Dio si manifesta sotto apparenza contraria: per afferrarne i suoi segni bisogna imparare a leggere la storia dal rovescio.

  • “E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada”.

In questo breve racconto si parla due volte di strada: “era cieco, seduto lungo la strada” “e lo seguiva lungo la strada”. È da ricordare che i primi cristiani erano chiamati “quelli della via, della strada”.  Perché erano chiamati così? Perché erano discepoli di Gesù che camminava lungo le strade e le contrade della Palestina. La strada è il simbolo dell’ascolto, del dialogo. Essere sulla strada vuol dire essere disponibili alle relazioni umane e sociali. Essere sulla strada vuol dire uscire, non chiudersi dentro le pareti di una casa, ma scendere tra la gente, conoscerne i problemi, condividere le sofferenze e le speranze di tutti. La strada è il simbolo dell’apertura, del condividere. Il nostro coraggioso Papa Francesco sceglie molti vescovi non tra quelli della scrivania o della Curia, ma tra quelli della strada cioè tra quelli che sono immersi nei problemi della gente di cui la strada è simbolo. Anche per quanto riguarda i cardinali non li designa in rapporto alle grandi sedi come Torino, Venezia, Milano, ma in base alla loro sensibilità di essere e di stare con la gente. Alcuni anni fa, sia in campo cattolico che civile, sono sorti animatori di strada cioè persone che cercano di accompagnare e prendersi cura dei giovani di strada, quelli che maggiormente possono trovarsi nel disagio sociale o religioso. Gesù era un uomo di strada, perché amava stare con la gente, partecipare alla sua vita.

Anche la Chiesa dovrebbe ritornare sulla strada. Il Papa parla di una Chiesa in uscita, una Chiesa che esce e si mette in strada.

La strada poi, ha pure l’incisivo significato del camminare, del non fermarsi. Il discepolo è uno della via o della strada perché è sempre in crescita, è sempre in ricerca. Non ha mai un pensiero definito, completo, ha un pensiero aperto. Tutti noi dovremmo essere persone aperte, curiose. Il grande psicoanalista e filosofo Galimberti dice: “La scuola è vera quando spinge i ragazzi alla curiosità”. E questo vale anche per la catechesi e per la Chiesa: dovrebbero creare persone curiose.

Due piccoli impegni

  • Capire e accompagnare la fragilità dei giovani: sono i nuovi poveri.
  • Mettersi sulla strada vuol dire uscire e ascoltare le persone.