Commento al Vangelo di don Battista Borsato

XXI domenica del T.O.

Gesù alla ricerca della sua identità

Gesù, giunto nella regione di Cesarea di Filippo, domandò ai suoi discepoli: “La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?”. Risposero: “Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elia, altri Geremia o qualcuno dei profeti”. Disse loro: “Ma voi chi dite che io sia?”. Rispose Simon Pietro: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. E Gesù gli disse: “Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra, sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli”. Allora ordinò ai discepoli di non dire ad alcuno che egli era il Cristo.

(Mt 16, 13-20)

Prima di soffermarmi su alcuni messaggi che mi arrivano da questo brano, vorrei premettere che nel Vangelo vi sono centinaia di domande: “Cosa dice la gente? E voi che cosa dite?” Gesù, riferiscono gli evangelisti, “non parlava alla gente se non con parabole” (Mt 13,34) e con domande. Gesù ha scelto queste due forme particolari di linguaggio perché esse compongono un metodo di comunicazione generativo e coinvolgente, che non lascia spettatori passivi. Lui era un maestro dell’esistenza, e voleva i suoi, pensatori e poeti della vita: “Le risposte ci appagano e ci fanno stare fermi, le domande invece, ci obbligano a guardare avanti e ci fanno camminare” (Pier Luigi Ricci).

  • “La gente chi dice che sia il figlio dell’uomo?” Secondo l’interpretazione usuale, e l’educazione ricevuta, riteniamo che Gesù avesse già chiara fin dall’inizio la propria identità, che il suo compito fosse già definito e che egli chiedesse di sé per capire cosa i discepoli pensassero della sua missione e, ancora prima della sua persona. Siamo quindi abituati a considerare questa domanda una verifica della consapevolezza storica di quanti stavano attorno a Gesù.

Oggi però si comincia a intuire, giustamente a mio parere, un’altra strada: Gesù era Dio, ma anche pienamente uomo (così afferma il Concilio di Calcedonia) e, come tale, ha certamente compiuto un cammino, per cogliere la sua vocazione, al pari di tutti, lungo la via. Anch’egli chiarisce a se stesso gradualmente la sua identità, nel rapporto con gli altri: non repentinamente, non perché abitato da un’illuminazione particolare, ma nella preghiera, nel dialogo con il Padre, attraverso il confronto con i discepoli e la sua gente. La domanda di Gesù, quindi, accanto al senso da sempre privilegiato, porta anche questa valenza: la ricerca di un ruolo definito. E la risposta di Pietro – “Tu sei il Cristo”, cioè “Tu sei il Messia, Tu sei l’inviato dal Padre” – dà certo a Gesù una rassicurante conferma di ciò che egli già pensava: ma è una conferma che viene dagli altri, ed ha per questo tanto più valore. Così, è chiaro che ciascuno di noi trova la propria identità attraverso il dialogo con gli altri: sono gli altri che ci identificano, è il rapporto con l’altro che dà luce al nostro essere chiamati.

  • “Allora ordinò di non dire ad alcuno che egli era il Cristo”. Questo particolare atteggiamento di Gesù, che raccomanda segretezza e silenzio, è molto sottolineato da Marco, ed è presente anche in Matteo. Perché Gesù impone di non rivelare che egli è il Messia? Forse perché sapeva bene che la gente aspettava un Messia glorioso, vincente, liberatore, addirittura conquistatore, venuto per riscattare il popolo da Roma e restituirgli la libertà, la dignità. Gesù, invece, sarà sì il Messia, ma un Messia perdente, crocefisso, sconfitto: questa opzione non entusiasmava certo i giudei. Neanche Pietro l’accetterà, e si ribellerà. Gesù, allora, vuole il silenzio perché intende educare gradualmente, chi lo segue, alla comprensione di un Messia diverso. Il suo atteggiamento è funzionale alla presentazione di se stesso come Messia nuovo, insolito, inaspettato.

O forse, anche, la richiesta del silenzio sottolinea pure la necessità che si sia discreti nella fede. Bisogna averne pudore. Molte volte noi gridiamo la nostra fede ai quattro venti: ma una fede conclamata, trionfalistica, è da evitare. Pudore nella fede significa consapevolezza d’ essere credenti, senza vanagloria: e non per vergogna, non per mancanza di fierezza o orgoglio di cristiani; piuttosto, perché desideriamo che sia la nostra vita a “dire” la nostra fede, che siano gli altri a scoprire perché facciamo certe cose, compiamo certe scelte, c’impegniamo in un certo modo, pratichiamo un certo stile di vita.

Nel convegno nazionale della Chiesa a Verona (2006) il card. Tettamanzi, riprendendo un’espressione di S. Ignazio di Antiochia, ha dichiarato: “E’ meglio essere cristiani e non dirlo che proclamarlo senza esserlo”.

  • “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa”. La Chiesa non è di Pietro ma rimane di Cristo: “la sua Chiesa”. L’autorità nella Chiesa è un valore perché è chiamata a risvegliare le coscienze, accendere la responsabilità di tutti. La Chiesa, fin dal suo inizio è principalmente carismatica e non gerarchica.

L’autorità è un valore, un carisma, quando fa crescere le persone, le accende, le ravviva;  è un inganno quando spadroneggia. Essa non deve pensare per la gente ma con la gente. Allo stesso modo, un genitore è autorevole quando non pensa per il figlio, ma fa pensare il figlio: allora la sua diventa sana ed accettabile autorità. Così anche la Chiesa: l’autorità vera è quella che non si sostituisce al popolo di Dio, ma prima di tutto lo accompagna nel cammino alla ricerca della verità.

La lettera post-sinodale “Amoris Laetitia”, insiste su una Chiesa sinodale dove tutti siano partecipi e responsabili. Grande è l’espressione: “I presbiteri sono chiamati a risvegliare le coscienze e mai a sostituirle” (37).

Due piccoli impegni:

– Gesù si è fatto veramente uomo, ha avuto i nostri dubbi e le fatiche di tutti.

– Avere il pudore della fede: non gridarla ma viverla.