Commento al Vangelo di don Battista Borsato

Commento al Vangelo di don Battista Borsato

IV domenica di Pasqua

No ad una fede bavaglio!

“In verità, in verità io vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante. Chi invece entra dalla porta, è pastore delle pecore. Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori. E quando ha spinto fuori tutte le pecore, cammina davanti ad esse, e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce. Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei”. Gesù disse loro questa similitudine, ma essi non capirono di che cosa parlava loro. Allora Gesù disse loro di nuovo: “In verità, in verità vi dico: io sono la porta delle pecore. Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati. Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo. Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza”.

(Gv 10, 1-10)

La liturgia di oggi è imperniata sull’immagine del “pastore”, anzi su Gesù buon pastore che io vorrei chiamare “bel pastore”. L’aggettivo buono può essere tradotto anche con “bello”! Il “bello” non esclude il buono, lo contiene, ma esprime qualcosa che attrae, seduce. La nostra cultura occidentale ha privilegiato la bontà e ha trascurato la bellezza. Nel sentir dire che una persona è una “bella persona”, si è portati ad ammirare sì la sua bontà d’animo, ma pure la sua apertura, il suo fascino che conquista e seduce. Essere belle persone vuol dire essere persone che vivono con gioia la propria vita e trasmettono calore, entusiasmo, speranza. Da tutto il Vangelo Gesù traspare come una bella persona, un bel pastore, che apre cammini, che non pungola, ma seduce, che non chiude, ma apre. E questa immagine di Gesù bel pastore dovrebbe essere il segno a cui ispirare la nostra vita.

Fatta questa premessa, oggi il Vangelo mi conduce a pormi, o meglio, a porci tre domande.

Perché si assiste ad una continua diserzione dalla chiesa? Quand’è che una persona è credente? Perché si rileva uno scollamento tra fedeli e pastori? Sono domande importanti e vere a cui cercherò di riferirmi, ma desidererei che esse abitassero nella nostra vita e avessero da ciascuno di noi delle risposte, se possibile, non affrettate, ma sofferte.

  • Perché c’è la diserzione dalla Chiesa? Questa diserzione o emorragia è visibile a livello giovanile, ma pure a livello di adulti. I ragazzi e i giovani in modo particolare non nutrono attrazione per la fede e tanto meno per la chiesa. Le persone più mature danno la colpa al benessere economico che avrebbe spento le tensioni spirituali e portato le persone a pensare solo al proprio godimento e al proprio interesse economico. Il benessere ci avrebbe ubriacati. Non voglio negare che questo non sia avvenuto e non stia avvenendo. È una causa esterna che certo esiste, ma non riusciamo a cogliere ed accettare una causa interna alla chiesa. Forse è la Chiesa stessa o il modo di vivere e di pensare la fede la ragione principale dell’abbandono della fede e della Chiesa. Molte persone, soprattutto anziani, si ricorderanno quando nelle chiese e negli oratori Dio veniva raffigurato come un grande triangolo, con dentro un grande occhio e si scriveva: “Dio ti vede”. E il “Dio ti vede” non indicava il Dio che ti vede per custodirti, amarti, ma il Dio ti vede per punirti. Era un Dio che incuteva paura, un Dio inquisitore.

È la stessa immagine di Dio che Gesù ha trovato nella religione giudaica: una religione fatta di leggi rigide, di minuziose regole, a cui ottemperare. Era una religione che avviluppava le coscienze. Gli uomini e le donne erano impediti a pensare in proprio. Erano schiavi della religione, chiusi dentro al recinto. Allora dice il Vangelo, Gesù va dentro al recinto, all’ovile e conduce fuori le pecore. È un’immagine potente: il recinto è il simbolo della religione giudaica che recingeva le coscienze con leggi, divieti, imposizioni. Le persone erano espropriate del proprio pensiero. Gesù va dentro e le conduce fuori perché pensino in proprio, camminino con le loro gambe, con le loro coscienze.

La Chiesa dovrebbe fare come Gesù: non dare pensieri già definiti, non imporre regole fisse e determinate, ma aiutare le persone a pensare e ad essere autonome e responsabili. Gesù ha dato libertà e respiro alle persone, ma perché sappiano dirigersi con la propria testa. Occorre passare dalla fede bavaglio alla fede stimolo.

  • Quando una persona è credente? La risposta è racchiusa dentro l’immagine del recinto. Prima dicevo che il recinto indicava la religione giudaica che chiudeva e spersonalizzava, ma il recinto nella parabola indica anche il Tempio. Allora Gesù spinge i discepoli a uscire dal Tempio, dalle Chiese.

La religione non deve chiudersi, non deve risolversi nel Tempio, perché la sua collocazione vera è la vita quotidiana, concreta degli uomini. Da sempre subiamo l’insidiosa tentazione di sentirci a posto con Dio perché frequentiamo il Tempio: Gesù, al contrario, invita ad uscirne. Egli non è contro il Tempio, ma considera Tempio vero la vita, il mondo, la storia. Ci si può e ci si deve ritirare nel Tempio per ascoltare la Parola, per celebrare l’Eucarestia, per riempirci dello Spirito: ma la finalità di tutto, poi, è entrare nella vita, nel mondo, nella storia, per liberare, sanare, costruire.

Non possiamo dirci cristiani se non imitiamo il buon Samaritano che rinuncia ai suoi impegni e paga di persona per dare l’aiuto al viandante aggredito dai briganti, non possiamo dirci cristiani se non ci battiamo anche politicamente per fare giustizia in modo che i poveri siano meno poveri, e che chi cerca pane e libertà trovi un ambiente ospitale.

Dovremmo anche noi essere consapevoli che la famosa teologia della liberazione appartiene al centro del Vangelo.

  • Perché c’è uno scollamento fra pastori e fedeli? Un disagio che esiste è che non sempre c’è intesa, collaborazione e anche simpatia fra i fedeli e i parroci, tra i fedeli e il Vescovo, tra i fedeli e il Papa. Questi conflitti e attriti appartengono alla convivenza umana. Anzi i conflitti possono essere delle tensioni creative. Non sempre sono indici di divisione, ma possono essere segnali per capirsi di più, per collaborare meglio. È l’indifferenza l’atteggiamento più grave nelle comunità! Ma possiamo rilevare che in molte parrocchie c’è una buona intesa tra parroci e fedeli, come c’è buona sintonia tra Papa Francesco e le comunità cristiane. Dove può annidarsi il pericolo del disagio tra pastori e popolo? Certo per vivere bene insieme occorre che sia il pastore che il popolo riacquistino la loro responsabilità.

Il popolo di Dio non può solo attendere e pretendere, deve sentirsi soggetto e dare un apporto alla comunità con la voglia di approfondire di più la sua fede e il suo essere Chiesa. Occorre passare dalla delega alla corresponsabilità. Così pure il pastore dovrà impegnarsi a crescere per essere una persona che impara e non solo che insegna, una persona che ascolta e non solo che parla. Nel Vangelo di oggi è tracciata la fisionomia del pastore secondo lo stile di Gesù:

            – Il pastore è uno che “cammina davanti alle pecore”. Non è un pastore di retroguardia: apre cammini, sta davanti e non alle spalle.

            – Non è un pastore che incalza, pungola, rimprovera per farsi seguire, ma è uno che precede, che seduce con il suo andare, affascina con il suo esempio.

            – È un pastore aperto al futuro: uno che coltiva, custodisce il bisogno di apertura, di ricerca e di creatività.

Un pastore così sarà simile a Gesù e apparirà il “bel pastore” e sarà amato, cercato, accolto dal popolo.

Due piccoli impegni:

– Vivere la fede come una riappropriazione della propria coscienza.

– Essere “belli pastori” è saper aprire cammini di futuro.